Parchi nazionali anti-uomo: “l’idea migliore che l’America abbia mai avuto”?
di Stephen Corry
Dopo i festeggiamenti per il centenario del Servizio dei Parchi Nazionali americano, che si è celebrato nel 2016, ho cercato la definizione di “parco nazionale” nell’onnipresente, anche se imperfetta, Wikipedia. Vi ho letto che “nonostante le singole nazioni designino i loro parchi in modi differenti, tutti condividono un’idea comune: la conservazione di una natura selvaggia”. Nulla di più falso. In realtà, esistono due approcci diversi ai parchi nazionali e alle aree protette, in totale contraddizione tra loro, e uno di questi non ha nulla a che vedere con ciò che viene definito “selvaggio”.
Purtroppo, l’altro sì. È fondato su un concetto erroneo di “wilderness”, ovvero di natura selvaggia e incontaminata, e ha iniziato a svilupparsi 150 anni fa a Yosemite, negli Stati Uniti. Sin dalla sua concezione, questo modello ha implicato la rimozione di coloro che vivono sulla terra e della terra. È stata questa la versione applicata nel Congo belga nel 1925, quando fu istituito il primo parco nazionale africano, oggi conosciuto come Virunga, che ha poi fatto da modello per la creazione di molte aree protette in tutta l’Asia e l’Africa. Almeno cinque milioni di persone sono state derubare di terra e mezzi di sussistenza (le stime più alte superano i 14 milioni), interi popoli sono stati distrutti e sono stati commessi innumerevoli abusi dei diritti umani. Questo modello è ancora oggi il più esportato in tutto il mondo, forse perché le organizzazioni della conservazione più potenti sono statunitensi. Le conseguenze sono tanto tragiche quanto criminali.
I parchi nazionali americani sono in parte disciplinati dal Wilderness Act del 1964, che cerca di incorporare l’idea, affermando che “Diversamente dalle aree in cui l’uomo e le sue opere dominano il paesaggio, una wilderness è… riconosciuta come un’area in cui la terra e la sua comunità di esseri viventi sono svincolate dall’uomo, dove l’uomo stesso è un visitatore che non rimane”. Non sorprende che questa frase abbia generato un dibattito infinito, che ai giorni nostri non sarebbe nemmeno accettabile. Negli Stati Uniti, la vecchia wilderness era stata in realtà a lungo “vincolata” ai Nativi Americani, che hanno gestito il paesaggio per millenni, ma in modi che solo recentemente hanno iniziato a essere adeguatamente riconosciuti dagli altri.
In effetti, in tutto il mondo i conquistatori europei sono stati incapaci di vedere il controllo del territorio operato dai popoli nativi, in parte perché annebbiati dal razzismo. In alcuni casi, gli invasori non hanno nemmeno notato che gli abitanti locali erano esseri umani. Secondo la legislazione inglese, ad esempio, l’Australia era “terra nullius”, “terra di nessuno”, e il Camerun francese era stato decretato “vuoto”. Questa cecità permane: nel 2012 il WWF affermò che l’utilizzo che i Pigmei fanno delle loro foreste in Camerun era “invisibile” quando, una decina di anni prima, l’organizzazione aveva fatto pressioni perché la terra ancestrale della tribù fosse sottratta loro per la creazione di alcuni parchi nazionali. (Oggi pretende invece di “avere insistito per ottenere un alto livello di… consenso” da parte della tribù).
In tutto ciò che viene detto o scritto a proposito dei grandi parchi americani campeggia invariabilmente il simbolo della wilderness come un’icona sacra. Ci si è fatta l’abitudine, ma l’inganno resta: i parchi non sono mai stati luoghi selvaggi e incontaminati. Il fatto che oggi vi si trovano sentieri tracciati con scalini, corrimano e cavi di acciaio non giova molto all’immagine. Oltre ai campeggi e ai centri ambientali che uno si aspetta, il Parco di Yosemite non disdegna alberghi di lusso, ristoranti, grandi magazzini, negozi, e persino impianti sciistici e rifugi – tutte infrastrutture che “vincolano” il paesaggio. (Oggi, la valle omonima è di per sé simile a un parco divertimenti: non sorprende scoprire che la Disney ne è un partner chiave.)
Forse, l’aspetto più controverso del concetto di wilderness per come viene utilizzato oggi, è ben illustrato nell’invenzione di un verbo inglese sempre più diffuso: “to rewild” (rinselvatichire). Sembra che il neologismo sia stato coniato agli inizi degli anni ’80 con David Foreman, uno dei fondatori di Earth First! ed ex-direttore di Sierra Club.
C’è poco di controverso o nuovo nell’imporre vincoli seri all’urbanizzazione e all’industrializzazione, né nello smantellare i loro ridondanti e spiacevoli detriti, ripopolando certe aree della flora e della fauna scomparse. Ma il “rinselvatichimento” di Foreman implica molto di più: egli è sia seguace sia leader di un’ideologia consolidata che auspica che almeno il 70% dell’umanità scompaia, lasciando sulla terra due miliardi di anime al massimo. Foreman si oppone con decisione anche all’immigrazione. In sintesi, il suo messaggio è profondamente anti-umanitario: per sua stessa ammissione, non gli dispiacerebbe se non rimanesse proprio alcun essere umano, ed è molto schietto anche rispetto alla sua misantropia e al suo “calvinismo ateo”. Questo genere di ambientalismo fondamentalista è diffuso negli Stati Uniti, ma se solo fossero consapevoli dei suoi principi cardine, molte delle persone comuni che in tutto il mondo sostengono gli sforzi della conservazione resterebbero sbalordite.
Naturalmente, questa visione è anche intrisa di contraddizioni: la maggior parte dei suoi alti prelati discendono essi stessi dagli immigrati europei e contribuiscono attivamente alla crescita demografica (Foreman, che non ha figli, è un’eccezione). La contraddizione più rilevante, però, è che il concetto di rewilding necessita di persone (i suoi promotori) che vincolino e modifichino il paesaggio per ricreare l’immagine di un passato corrispondente a un preciso momento storico – un costrutto che pur esistendo nell’immaginario dei rewilder potrebbe non essere nemmeno mai esistito in nessuna realtà storica. Non potrebbe quindi trattarsi semplicemente di un nuovo tipo di parco a tema?
Nell’esprimere le proprie convinzioni, solitamente queste persone enfatizzano l’arricchimento spirituale e il ristoro che trovano nei grandi spazi aperti, senza cui pare che non potrebbero nemmeno vivere. Ma milioni di altre persone (compreso il sottoscritto) condividono questa esperienza con non meno intensità – e ciò nonostante abbracciano contemporaneamente l’umanità, e si oppongono all’idea di ferire altri esseri umani. La giustizia verso i più vulnerabili ci sta a cuore tanto quanto “i grandi spazi aperti”.
Sostenere che non dovrebbero essere distrutti dei popoli nel nome della conservazione non significa opporsi alla conservazione in sé. Al contrario, a danneggiare la reputazione della conservazione sono le false descrizioni di una natura selvaggia libera dall’uomo, che la trasformano in un nemico per milioni di locali che si vedono così negare il diritto alla vita. Il fenomeno si estende in tutto il mondo e, a meno che non sia fermato, è probabile che la conservazione tracolli proprio per effetto di coloro che rivendicano a gran voce i loro diritti fuori dai cancelli delle loro terre ancestrali – cancelli controllati dalle grandi organizzazioni della conservazione che hanno unilateralmente tagliato fuori le comunità locali.
A peggiorare la situazione vi è il fatto che i locali che cacciano per la propria sussistenza si ritrovano sempre più spesso a essere i primi e più facili bersagli dei guardaparco armati, spesso in combutta con le vera rete organizzata del bracconaggio che opera dall’interno dei governi. Recentemente, al Congresso è stato approvato un progetto di legge che incoraggia la militarizzazione della conservazione nel mondo e che non farà che peggiorare ulteriormente la situazione. Coloro che si vedono derubare delle loro terre con la forza delle armi, potrebbero finire con l’unirsi alle fila di chi considera gli Stati Uniti come aggressori piuttosto che liberatori.
Esiste tuttavia un modello di parco nazionale completamente diverso, dove non si spara alla gente, dove il concetto di wilderness non è quasi mai menzionato e che, cosa più importante, funziona davvero. Funziona perché le persone che vivono all’interno di questo tipo di parchi ne sono considerati parte integrante e perché la loro lunga esperienza nell’adattamento del territorio – e nella sua protezione da uno sviluppo inappropriato – è riconosciuta come centrale per l’esistenza e il successo delle aree protette stesse.
Un buon esempio è il Parco Nazionale di Sagarmatha (Everest) in Nepal, che include alcuni dei luoghi più alti e selvaggi esistenti sulla Terra (dove tra l’altro ho avuto la mia conversione personale, come Paolo sulla via di Damasco, 45 anni fa). Persino le folle di stranieri benestanti che si arrampicano sui percorsi più facili del monte Everest scompaiono per undici mesi all’anno, quando le condizioni atmosferiche sulla montagna diventano insopportabili… Eppure, la descrizione che l’UNESCO fa del parco non cita la wilderness, ma sottolinea come i migliaia di Sherpa che vi vivono siano “un fattore centrale… per il successo della conservazione del parco”.
Quindi, perché agli Sherpa è permesso rimanere a Sagarmatha mentre nel bacino del Congo i popoli indigeni africani vengono ancora cacciati dai parchi supportati dal WWF? Perché gli Sherpa possono convivere con il leopardo delle nevi mentre in India migliaia di indigeni oggi rischiano l’espulsione dalle riserve delle tigri? L’approccio fondato sugli sfratti viola gli impegni che il WWF e altre grandi organizzazioni della conservazione oggi assumono a parole nei confronti dei saperi indigeni. Per quanto ne so, tuttavia, nessuna grande organizzazione della conservazione, da nessuna parte, si è mai opposta al furto delle terre indigene.
Ci sono persone che vivono all’interno dei parchi e di altre aree protette, in tutta l’Europa e altrove. Hanno delle proprietà e gestiscono il territorio, dentro i parchi, proprio come hanno sempre fatto. Quindi, ripeto: perché le persone non possono continuare a vivere nei parchi in India o in Africa?
La risposta è motivo di vergogna per le grandi organizzazioni della conservazione che danno copertura a questi crimini, ed è semplice: perché popoli come gli Sherpa resisterebbero energicamente a ogni tentativo di sfratto! Mentre popoli come i “Pigmei” Baka del Camerun (cacciati e quotidianamente aggrediti da guardaparco supportati dal WWF), non hanno informazioni, mezzi e forza organizzativa sufficienti per resistere con successo. Sono semplicemente troppo impotenti.
I popoli indigeni, i migliori conservazionisti, vengono cacciati dalle loro terre perché possono essere cacciati. Dove l’industria della conservazione è coinvolta, potete dimenticarvi della “natura selvaggia”: alla base della sua ideologia c’è il principio che “la ragione sta dalla parte del più forte”. È tempo di sfidare questa violenta forma di bullismo. La conservazione è troppo importante per tutti noi per permettere che le grandi organizzazioni continuino ad averne il controllo. Lasciate incontrastate, stanno danneggiando la conservazione stessa.
Stephen Corry lavora con Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, dal 1972. Si possono trovare maggiori informazioni e ci si può alla campagna per un nuovo modello di conservazione promossa dall’organizzazione qui.