18 aprile 2024: decolonizziamo l’Unesco

 

Il 18 aprile di ogni anno, dal 1983, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO) invita il mondo a celebrare la Giornata Internazionale dei Monumenti e dei Siti, nota anche come Giornata del Patrimonio dell’Umanità. Anche se aumentare la consapevolezza sulla conservazione del patrimonio mondiale sembrerebbe una buona idea, purtroppo, nei fatti la realtà di molti siti dichiarati Patrimonio Mondiale, o Patrimonio dell’Umanità, è ben diversa.

In molti di questi luoghi si verificano apertamente abusi orribili con la complicità dell'UNESCO e talvolta persino con il suo sostegno. Troppo spesso, i cosiddetti siti “naturali” riconosciuti come Patrimonio Mondiale sono zone di guerra per i popoli indigeni, il cui ruolo vitale nella conservazione e alimentazione di questi luoghi viene negato e spesso brutalmente represso. Quando cercano di accedere alle loro terre ancestrali, i popoli indigeni vengono picchiati, stuprati, abusati e persino uccisi. E tutto ciò nel nome della "conservazione".

Erroneamente descritti come pura "natura", almeno un terzo dei 227 siti dichiarati Patrimonio Mondiale “Naturale” ai sensi della Convenzione UNESCO sul Patrimonio dell’Umanità del 1972, "si trovano in tutto o in parte all'interno dei territori tradizionali dei popoli indigeni e sono di grande importanza per i loro mezzi di sussistenza e il loro benessere spirituale, sociale e culturale"1. Ma anziché essere celebrati come i migliori custodi dei loro territori, i popoli indigeni stanno pagando a caro prezzo l’aver plasmato e abitato i paesaggi più belli e importanti del nostro pianeta. 

In questa Giornata internazionale del Patrimonio dell’Umanità chiediamo all'UNESCO di smettere di essere complice di violazioni dei diritti umani, di rimuovere dal su elenco i siti in cui si verificano abusi e di ascoltare i popoli indigeni, i migliori custodi del mondo naturale. 

Introduzione

 

L'UNESCO ha svolto un ruolo importante nella diffusione della “conservazione fortezza” a partire dall'Africa, in particolare dopo la fine del dominio coloniale. Negli anni che seguirono l'indipendenza dei nuovi stati africani, l'UNESCO ha giocato un ruolo centrale nel diffondere l'idea che la natura africana dovesse essere salvata attraverso l'intervento di "esperti" (principalmente ex-ufficiali coloniali), l'applicazione della scienza occidentale e la creazione di parchi nazionali che escludessero gli abitanti originari2

 

Il primo direttore dell'UNESCO, Julian Huxley – che in seguito fu uno dei fondatori del WWF – identificò esplicitamente le popolazioni locali africane come un ostacolo alla conservazione lamentando la "tendenza a soddisfare le richieste immediate delle tribù africane a discapito della pianificazione a lungo termine".3 Scrisse che "la maggior parte degli indigeni africani considera gli animali selvatici o come parassiti da eliminare o semplicemente come carne da uccidere e mangiare".4 La soluzione dell'UNESCO fu quindi quella di fornire "assistenza" agli Stati africani per la creazione di parchi nazionali – recintati in modo da tenere fuori "gli indigeni in cerca di legna da ardere”5 – iin cui la fauna selvatica potesse essere salvata dalla forza distruttrice degli Africani e conservata per il piacere dei turisti.

 

Sotto l'influenza dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) e in collaborazione con l'UNESCO, negli anni che seguirono l'indipendenza degli stati africani furono quindi create molte Aree Protette nelle terre dei popoli indigeni, e senza il loro consenso.

 

L'idea che gli stati africani dovessero recintare i loro paesaggi "naturali" – con l'aiuto delle competenze occidentali – per il piacere dei turisti, ebbe nuova spinta a livello internazionale grazie all'idea di Patrimonio Mondiale. Applicando questo concetto, l'UNESCO mette gli ecosistemi che sono stati plasmati e abitati dai popoli indigeni sotto la tutela di una generica "umanità".

 

Dopo essere stati introdotti durante la Conferenza ONU sull'Ambiente Umano a Stoccolma, il concetto di Patrimonio dell’Umanità e l’idea di istituire un Fondo per il Patrimonio Mondiale responsabile della sua conservazione vennero sanciti definitivamente nel 1972, quando la Conferenza Generale dell'UNESCO adottò la "Convenzione sulla protezione del Patrimonio culturale e naturale". Attraverso la convenzione, l'UNESCO "mira a incoraggiare in tutto il mondo l'identificazione, la protezione e la conservazione del patrimonio culturale e naturale considerato di eccezionale valore per l'umanità". E aggiunge che "ciò che rende eccezionale il concetto di Patrimonio Mondiale è la sua applicazione universale e i beni che lo costituiscono appartengono a tutte le popolazioni del mondo, al di là dei territori nei quali sono collocati”.6 La convenzione non fa menzione delle conoscenze o della gestione indigena, per non parlare dei diritti territoriali indigeni. Nella sua definizione di "Patrimonio naturale" non vi è alcun riferimento alle persone che hanno plasmato, creato e alimentato quei paesaggi, né all’importanza sociale o spirituale che essi hanno per i popoli indigeni. Il valore di questi luoghi viene descritto solo dal punto di vista della scienza, della conservazione o della bellezza naturale.

 

Nel corso del tempo, le stesse IUCN e UNESCO riconobbero che la conservazione era percepita come incompatibile con le esigenze delle comunità locali e così, nei primi anni '80, promossero il concetto di "conservazione comunitaria". Nei decenni successivi, hanno aggiornato politiche, linee guida e posizioni, apparentemente per incoraggiare la "consultazione" o la "partecipazione" dei "partner" indigeni. Eppure, come mostrano gli esempi che riportiamo qui sotto, sul campo nulla è cambiato: se la retorica è “basata sulla comunità”, la pratica è rimasta anti-comunitaria.

 

Dalla loro nascita fino a oggi, i siti "naturali" Patrimonio dell’Umanità sono rimasti estremamente problematici. Le idee coloniali e razziste sulla necessità di proteggere la "natura selvaggia" dai “pessimi locali" – rese esplicite in alcuni casi dagli ideatori del concetto di Patrimonio Mondiale, e implicite nelle convenzioni e negli accordi UNESCO che lo regolamentano – si sono, più e più volte, concretizzate nello sfratto dei popoli indigeni e locali la cui terra viene dichiarata Patrimonio dell’Umanità, e in altre violazioni dei loro diritti umani.

 

Queste violazioni hanno più volte indotto comunità, organizzazioni indigene, Survival International, Relatori Speciali delle Nazioni Unite e altri attori a contestare la creazione di Siti UNESCO in terra indigena. Ciò nonostante, la risposta dell'UNESCO è stata scandalosamente debole e il suo approccio non è cambiato. Per molti locali è fin troppo evidente che, quando vengono dichiarate Patrimonio Mondiale, le loro terre vengono poi trattate come se non appartenessero più a loro, ma a "tutti i popoli del mondo" – e in particolare ai turisti paganti. Quando un luogo viene premiato perché la sua natura ha un "eccezionale valore per tutta l'umanità", i governi e le ONG hanno il via libera, e in alcuni casi anche chiare istruzioni, per tenere fuori i locali incolpandoli della distruzione di un ambiente "naturale" che, in realtà, hanno alimentato e contribuito a creare.

 

Gli stati aspirano a vedere i loro paesaggi e i loro monumenti inclusi nel famoso elenco dell'UNESCO: in questo modo possono guadagnare prestigio e sostegno internazionale, pubblicità, turisti e denaro, compreso l'accesso a nuovi meccanismi di finanziamento. Ma per le persone i cui territori sono dichiarati Patrimonio naturale Mondiale, non c’è nulla da festeggiare.

 

Diverse indagini compiute da Survival – nel corso delle quali abbiamo visitato molte comunità indigene in Africa e in Asia – hanno riscontrato ripetuti casi di tortura, stupro e uccisione di indigeni sia all'interno sia intorno a siti Patrimonio naturale Mondiale. Dietro la bellezza di questi straordinari luoghi “naturali”, proprio le persone di cui dovremmo riconoscere il contributo all'umanità vengono sfrattate e abusate con violenza per soddisfare le nostre fantasie sull’esistenza di una "natura vergine e selvaggia" (wilderness). L'UNESCO ha un'enorme responsabilità storica in tutto ciò: perché continua a promuovere la narrazione coloniale che ritrae i territori indigeni come "natura vuota" (siti "naturali") da proteggere dai suoi stessi abitanti; e perché continua a sostenere governi che uccidono nel nome della protezione del "Patrimonio Mondiale”.

 

Se c'è una lezione che possiamo imparare sulla condivisione delle bellezze del nostro mondo tra tutta l'umanità, a impartircela sono proprio i popoli indigeni con i loro stili di vita incentrati sulla sostenibilità e sulla tutela delle generazioni future. Sono i migliori custodi del mondo naturale e i loro diritti devono essere rispettati. Esortiamo l'UNESCO a smettere di sostenere il modello della “conservazione fortezza” e a rimuovere dall’elenco del Patrimonio Mondiale i luoghi in cui si verificano atrocità contro i diritti umani. Sarebbero passi importanti per cominciare a decolonizzarsi.

 

1. IWGIA, Forest Peoples Programme e Gundjeihmi Aboriginal Corporation, World Heritage Sites and Indigenous Peoples' Rights, 2014.

2. Si veda ad esempio, J. Huxley, The Conservation of wild life and natural habitats in Central and East Africa: report on a mission accomplished for UNESCO, July-September 1960, UNESCO, 1961.

3. J. Huxley, ‘Poaching: the shocking slaughter of Africa’s Wildlife’, in The UNESCO Courier: a window open on the world, XIV, 9, p. 8-13, illus. , 1961 [FR: Le Courrier de l'UNESCO: une fenêtre ouverte sur le monde, XIV, 9 // ES: El Correo de la UNESCO: una ventana abierta sobre el mundo, XIV, 9]

4. J. Huxley, The Conservation of wild life and natural habitats in Central and East Africa: report on a mission accomplished for UNESCO, July-September 1960, UNESCO, 1961.

5. Ibid

6. UNESCO, Patrimonio dell'Umanità

 

Perché l'UNESCO dovrebbe prendere posizione contro la “conservazione fortezza”? Approfondisci 


(Nota: Questo elenco non è esaustivo)

 

 

Complesso forestale di Kaeng Krachan, Thailandia

 

Il fatto che il KKFC diventi un Sito Patrimonio dell’Umanità costituisce una grave violazione dei diritti umani.” Uomo Karen (anonimo per garantire la sua sicurezza)

Il Complesso forestale di Kaeng Krachan (KKFC) è stato designato Sito Patrimonio dell'Umanità nel 2021 in base ai "criteri naturali" – come "habitat naturale significativo per la conservazione in situ della diversità biologica". È la casa del popolo Karen, che lì pratica da generazioni l'agricoltura a rotazione.

 

Il KKFC ha una lunga storia di violazioni dei diritti umani, tra cui sfratti violenti, l'incendio di villaggi karen, molteplici arresti e l'omicidio dell'attivista karen Pholachi “Billy” Rakchongcharoen iavvenuto nel 2014. Ai Karen è vietato praticare l'agricoltura a rotazione all'interno del Sito nonostante essa sia fondamentale per il loro stile di vita. Dicono che senza la loro terra "i Karen non esisteranno più".

 

Il Comitato per il Patrimonio Mondiale ha dichiarato il KKFC “Patrimonio dell’Umanità” nonostante fosse ben consapevole degli abusi che vi venivano commessi. Nel 2021 alcuni Karen avevano fatto pressione sul Comitato riunito in Cina sollevando le loro obiezioni. Inoltre, tre Relatori Speciali ONU avevano chiesto all'UNESCO di rinviare la decisione fino a quando le preoccupazioni sui diritti umani non fossero state affrontate. Ma gli appelli sono rimasti inascoltati.

 

I Karen hanno raccontato a Survival che, a causa del riconoscimento dell’Unesco, il Parco nazionale di Kaeng Krachan si è espanso, causando un aumento delle molestie e degli arresti, e un inasprimento delle restrizioni. Ci hanno detto che lo status di Patrimonio Mondiale ha “peggiorato” i tentativi di cacciarli tutti fuori dalla foresta e che ora non possono più nemmeno raccogliere funghi.

 

"Lo staff che gestisce il Patrimonio dell’Umanità vede solo la foresta e gli animali, non vede le persone, ma le persone sono parte di esso. Non ci vedono, è una sorta di cecità” ha dichiarato un uomo Karen. E un altro ha aggiunto, senza tanti giri di parole: "Il fatto che il KKFC diventi un Sito Patrimonio dell’Umanità costituisce una grave violazione dei diritti umani".

 

 

Ascolta Kampu, un giovane Karen il cui villaggio è stato sfrattato dal profondo del Parco nazionale di Kaeng Krachan. Nel video, Kampu spiega come sono peggiorate le cose da quando il parco è stato dichiarato Patrimonio Mondiale.

 

Leggi la lettera che il popolo Karen che vive nel Parco nazionale di Kaeng Krachan ha scritto all'UNESCO per denunciare come il riconoscimento di Sito Patrimonio dell’Umanità abbia esacerbato i loro problemi.

 

 

Parco nazionale di Kaziranga, India

 

Le guardie forestali mi hanno sparato all'improvviso.” Akash Orang, un bambino indigeno di sette anni colpito dai guardaparco nel 2016.

Il Parco nazionale e Riserva delle Tigri di Kaziranga, nell'India nord-orientale, è Patrimonio Mondiale UNESCO dal 1985. Da allora, è diventato tristemente famoso per le brutali esecuzioni extragiudiziali che vi avvengono, per le torture e gli arresti arbitrari, e per la pratica di sparare a vista effettuata dai suoi guardaparco nell’impunità. È la casa dei popoli Mising e Karbi ma anche di altri popoli indigeni portati nella zona per lavorare nelle piantagioni di tè, conosciuti collettivamente nell’area come le "tribù del tè".

 

Tra il 1990 e il 2016, all’interno del parco le guardie hanno ucciso 144 persone, tra cui un indigeno gravemente disabile.

 

Nel 2016, Akash Orang, un bambino indigeno di soli sette anni, è stato colpito alle gambe dalle guardie del parco mentre si stava recando in un negozio locale. "I guardaparco mi hanno sparato all'improvviso" ha raccontato alla BBC. Akash ha subito ferite che gli hanno cambiato la vita e non si riprenderà mai completamente.

 

Nonostante la politica dello sparare a vista sia stata ufficialmente smentita, in un rapporto del 2014 del Direttore del Parco viene descritta una delle massime impartite durante l’addestramento: "mai permettere ingressi non autorizzati – uccidere gli indesiderati".

 

Lungi dall'esprimere preoccupazione per le esecuzioni extragiudiziali a Kaziranga, nel suo rapporto sullo Stato della Conservazione del 2011, il Centro per il Patrimonio Mondiale UNESCO ha elogiato una norma governativa che garantisce alle guardie forestali immunità penale nel caso in cui usino armi da fuoco durante il servizio definendola un "passo significativo per prevenire il bracconaggio e rafforzare il morale del personale”.

 

Dopo le denunce fatte da Survival e da alcune organizzazioni locali nel 2016, il comportamento dei guardaparco è stato sottoposto a maggiori controlli con l’effetto di vedere drasticamente ridotti sia il numero delle uccisioni extragiudiziali sia il numero dei rinoceronti vittime del bracconaggio. Ma i popoli indigeni che vivono intorno al Parco sono ancora vessati e non possono accedere alle loro terre ancestrali. "Ora non possiamo nemmeno raccogliere un pezzo di bastone nella foresta” spiega un uomo Mising. “Noi non ci andiamo nemmeno là, ma cercano di coinvolgere falsamente delle persone nei casi, e le torturano.”

 

Guarda un breve video sullo sfratto degli indigeni e sulle terribili violazioni dei diritti umani che avvengono nel Sito Patrimonio dell'Umanità di Kaziranga.

 

 

Parco nazionale di Chitwan, Nepal

 

Il più grande crimine di Raj Kumar è stato quello di non riuscire a vedere la sua famiglia morire di fame e di essere andato a cercare cibo nella giungla.” Madre di Raj Kumar, giovane chepang picchiato a morte dai guardaparco nel Parco nazionale di Chitwan nel 2020.

Il Parco nazionale di Chitwan è stato dichiarato Patrimonio Mondiale nel 1984. È la casa dei Tharu, dei Chepang, dei Bote e di altri popoli indigeni che hanno protetto la loro foresta per generazioni prima di essere sfrattati dal parco. I Tharu venerano la tigre e hanno un rapporto speciale con molti animali tra cui gli elefanti che, dicono, capiscono solo la lingua tharu. 

 

Le comunità indigene di Chitwan soffrono molto a causa dell’esistenza del parco. Nel nome della conservazione sono stati sfrattati con la forza, picchiati, torturati e persino uccisi. Nel 2006 Shikharam Chaudhary, un anziano tharu, è stato torturato e picchiato a morte dai guardaparco. L'autopsia ha rivelato che aveva sette costole rotte e lividi e contusioni su tutto il corpo. Tre funzionari del parco, tra cui il capo delle guardie, sono stati arrestati e accusati di omicidio ma – sotto la pressione di organizzazioni per la conservazione tra cui il WWF – il governo nepalese ha poi lasciato cadere le accuse.

 

Nel 2020 Raj Kumar, un giovane Chepang, è stato picchiato a morte dai soldati dopo  aver raccolto lumache con alcuni amici all'interno del parco. . "Il più grande crimine di Raj Kumar è stato quello di non riuscire a vedere la sua famiglia morire di fame e di essere andato a cercare cibo nella giungla” ha detto la madre.

 

Nello stesso anno, nel corso di una campagna per sfrattare le poche persone rimaste all’interno del Sito, soldati e autorità del parco hanno bruciato alcune case chepang e ne hanno distrutte altre, lasciando dieci famiglie senza un tetto durante i monsoni. 

 

"Se vogliono rafforzare le comunità, che riconoscano i nostri diritti alla terra e a gestire e proteggere la nostra foresta da soli. Faremo un lavoro migliore del governo e delle ONG!" hanno scritto alcuni leader tharu nel 2020. 

 

Ascolta Birendra Mahato, attivista tharu, spiegare perché i Tharu sono vittime del Parco nazionale di Chitwan.

 

 

Area di conservazione di Ngorongoro, Tanzania

 

Il sostegno dell'UNESCO viene usato per sfrattarci. Siamo davvero stanchi e confusi, non sappiamo quando moriremo.” Leader Masai, Area di conservazione di Ngorongoro.

L’Area di conservazione di Ngorongoro (NCA), che confina con il Parco nazionale del Serengeti, fu istituita nel 1959 come area a uso multiplo, in cui la fauna selvatica poteva convivere con i pastori Masai semi-nomadi. Tuttavia, sin dalla sua creazione, i conservazionisti hanno continuato ad affermare che la fauna selvatica di Ngorongoro fosse in pericolo a causa della "pressione demografica": troppi Masai e troppi bovini.

 

La narrativa dei "troppi" imperversa da decenni ed è ora la principale giustificazione che il governo tanzaniano usa per sfrattare i Masai dall'Area di Ngorongoro. I Masai hanno denunciato arresti arbitrari, torture e pestaggi, la militarizzazione dell'Area e la confisca illegale del loro bestiame. Il governo ha anche tagliato i servizi di assistenza sociale e sanitaria all’interno dell’Area nel tentativo di costringere i Masai a "reinsediarsi". Questo avrebbe portato alla morte di almeno una donna incinta e al mancato trattamento dell'HIV, con conseguenti (ma evitabili) trasmissioni ai neonati.

 

"Non sappiamo più quali altre malvagità vogliono ancora commettere contro di noi" ha detto a Survival un uomo Masai. 

 

L'UNESCO ha svolto un ruolo centrale nel legittimare questo furto di terra. L'Area di conservazione di Ngorongoro è stata riconosciuta Patrimonio Naturale UNESCO per la prima volta nel 1979. Fa anche parte della Riserva della Biosfera Serengeti-Ngorongoro, creata nel 1981 nell'ambito del Programma Uomo e Biosfera dell'UNESCO. Nel 2010, il riconoscimento è stato esteso e ora è un Patrimonio misto “naturale” e “culturale”. 

 

Tuttavia, il riconoscimento di “Patrimonio culturale" non ha portato al riconoscimento del ruolo e dei diritti territoriali dei Masai. Anzi, è avvenuto il contrario. Mentre, nella propria richiesta di riconoscimento, persino il governo tanzaniano ha citato "l'eccezionale importanza dei Masai per un'efficace conservazione", l'UNESCO non ne ha fatto menzione nella sua decisione, e ha anzi sottolineato la necessità di mantenere "un’ulteriore crescita della popolazione masai e del numero di capi di bestiame nei limiti della proprietà.”

 

Non è stata né la prima né l'ultima volta che l'UNESCO ha sollevato questo punto. In precedenza aveva dichiarato di ritenere che la popolazione masai fosse di gran lunga superiore alla "capacità della riserva" e aveva minacciato che, a meno di un intervento “urgente”, lo status di sito UNESCO "sarebbe stato messo a repentaglio". In un rapporto del governo tanzaniano del 2019, la posizione dell'UNESCO viene riassunta come contraria al modello di utilizzo multiplo del suolo nell’Area e a sostegno del trasferimento dei Masai con la sola eccezione di alcune strutture destinate al "turismo culturale".

 

Un uomo Masai esperto del coinvolgimento dell'UNESCO spiega che "tutto questo significa dimenticare che per gli indigeni Masai, Barabaig e Hadzabe l’area è una casa… [Di conseguenza], i popoli indigeni dell’Area di conservazione di Ngorongoro devono affrontare nuove priorità di gestione volte a salvaguardare il suo cosiddetto “eccezionale valore universale”. I Masai hanno anche criticato l'UNESCO per aver dichiarato l’area Patrimonio dell’Umanità senza il loro Consenso libero, previo e informato (FPIC) e per aver conferito questa onorificenza a un luogo in cui avvengono abusi e violazioni dei diritti umani. 

 

I rappresentanti masai denunciano da anni sfratti, violazioni dei diritti umani e persecuzioni a vari organismi delle Nazioni Unite, tra cui l'UNESCO, e hanno chiesto una missione investigativa. Quando tale missione ha finalmente avuto luogo, nel febbraio 2024, non ne sono stati informati ufficialmente e la delegazione UNESCO ha parlato solo con persone selezionate dal governo. La delegazione non ha incontrato i rappresentanti legittimi dei Masai all’interno dell’Area di conservazione di Ngorongoro. 

 

Nel contesto di queste violazioni dei diritti umani, i rappresentanti masai hanno chiesto che Ngorongoro sia cancellata dall’elenco dei Siti Patrimonio Mondiale.

 

Ascolta Karani Olenkaisiri, anziano Masai, raccontare degli sfratti dei Masai dall'Area di conservazione di Ngorongoro e da Loliondo. 

 

Parco nazionale di Odzala-Kokoua, Repubblica del Congo

 

Abbiamo bisogno della foresta. I nostri figli non conoscono più gli animali né le nostre piante medicinali tradizionali. Ora i Baka vivono lungo la strada. Dirvi questo mi fa male al cuore. Ma senza i Baka, anche la foresta è malata.” Uomo baka, Parco nazionale di Odzala-Kokoua

Situato sulla terra del popolo di cacciatori-raccoglitori Baka, Odzala-Kokoua è uno dei parchi nazionali più antichi dell'Africa: fu dichiarato riserva di Odzala nel 1935 dall'amministrazione coloniale francese. È famoso per i gorilla della sua pianura occidentale e per gli elefanti della foresta, e oggi si estende per 13.867 kmq: un’area grande quasi la metà del Belgio. 

 

Dal 2010 il parco è gestito dall'organizzazione per la conservazione African Parks, che quell’anno stipulò un accordo di 25 anni con il governo della Repubblica del Congo. African Parks adotta un approccio militarizzato alla conservazione ed è responsabile di violenze diffuse contro i Baka, che subiscono abusi quando cercano di entrare nella loro terra per nutrire le loro famiglie cacciando, per raccogliere piante medicinali o visitare i loro luoghi sacri. I Baka hanno riferito a Survival International che negli ultimi anni, tra altri orribili crimini, i guardaparco hanno versato cera calda sulle loro schiene e li hanno frustati; che li hanno picchiati con delle cinture; che hanno tenuto le loro teste sott’acqua in un fiume, che hanno violentato una donna indigena mentre teneva in braccio il suo bambino di due mesi e che hanno stuprato un ragazzo baka di 18 anni.

 

Oltre a subire violenze, i Baka vengono privati dei loro mezzi di sussistenza e del loro senso di identità. Poiché viene impedito loro di accedere alla foresta natale, dicono di non avere più niente da mostrare ai loro figli sul loro stile di vita. A essere minacciata è l’esistenza stessa dei Baka come popolo.

 

Odzala è stata insignita dello status di Riserva Biosfera UNESCO nel 1977, e il più ampio massiccio forestale di Odzala-Kokoua è diventato Patrimonio dell’Umanità UNESCO nel settembre 2023 nonostante le diffuse atrocità che avvengono sia all'interno che intorno al Parco nazionale siano ben note

 

Il documento presentato dal governo congolese per il riconoscimento di Odzala-Kokoua come Patrimonio Mondiale riconosce che ci sono molti popoli diversi che vivono intorno al parco e che dipendono dalla foresta del parco per il loro sostentamento. Nel 2022 la stessa UNESCO ha chiesto al governo congolese di consultare la popolazione locale sulle modalità di gestione del parco, e ha rinviato la decisione sulla candidatura. La richiesta finale del governo congolese presentata l'anno successivo non ha cercato in alcun modo di soddisfare questa richiesta. Né ha mostrato rispetto per le linee guida UNESCO sui popoli indigeni, in vigore dal 2019, che prescrive, tra le altre cose, che i governi "devono consultare e cooperare in buona fede con i popoli indigeni interessati [...] al fine di ottenere il loro consenso libero, previo e informato prima di includere i loro siti nella Tentative List [candidatura]". In una sua “revisione tecnica” della proposta, persino l’IUCN ha messo in dubbio che, in linea con le linee guida UNESCO, fossero stati intrapresi dei passi per ottenere il consenso libero, previo e informato dei popoli indigeni dell'area. Nonostante ciò, la decisione del Comitato UNESCO di accettare Odzala come Sito Patrimonio Mondiale “naturale” non ha accennato ad alcuna preoccupazione sui popoli indigeni.

 

Ascolta il giovane Baka Eyaya Nivrel denunciare la leadership di African Parks e gli sfratti, le violenze e le torture subite dai Baka.  

 

Parco nazionale di Kahuzi-Biega National Park, Repubblica Democratica del Congo

 

Viviamo nella foresta. Quando ci vedono, ci violentano. Se dovremo morire, moriremo, ma resteremo nella foresta.” Una donna batwa violentata da soldati e guardaparco in un attacco del luglio 2021.

Il Parco nazionale di Kahuzi-Biega (creato nel 1970) è diventato Patrimonio dell’Umanità nel 1980. Negli anni ’70, i Batwa che vivevano nell’area sono stati sfrattati dalla loro terra ancestrale per far posto al parco. Lo sfratto dei Batwa, un tempo autosufficienti, ha portato a decenni di povertà, a gravi discriminazioni e a tassi di mortalità estremamente elevati poiché gli indigeni, privati della loro terra, sono stati costretti a trasferirsi in luoghi di reinsediamento informali nelle aree limitrofe al parco. 

 

Dopo numerose promesse di risarcimento e giustizia mai mantenute, nel 2018 diverse comunità batwa sono tornate nelle loro terre ancestrali, dentro il parco, nell’estremo tentativo di sfuggire all’impoverimento. Questa iniziativa ha scatenato contro di loro ondate di violenza a partire dal 2019, quando le autorità del parco, con il sostegno dell'esercito congolese (FARDC), hanno avviato una campagna per ripulire la foresta dai Batwa. Contro i villaggi batwa sono stati condotti diversi attacchi estremamente violenti, che hanno comportato molte atrocità ben documentate. Rapporti recenti dimostrano che queste violenze continuano.

 

Nel 2022, un rapporto dell'organizzazione per i diritti umani Minority Rights Group (MRG) ha documentato che nel corso di questi attacchi decine di donne batwa sono state stuprate in gruppo sotto la minaccia delle armi; che almeno venti Batwa sono stati uccisi; che diversi Batwa, bambini inclusi, sono stati bruciati vivi. I cadaveri dei Batwa sono stati mutilati e centinaia di indigeni sono stati sfrattati, spesso ripetutamente, in ondate successive di attacchi. Secondo MRG, questi attacchi "erano parte di una politica istituzionale sancita e pianificata al più alto livello dalla leadership del parco". 

 

Prima, durante e dopo queste recenti ondate di violenza, il Comitato per il Patrimonio Mondiale ha esortato il governo a ridurre la “dipendenza” delle comunità locali “dalle risorse del Parco" e ha chiesto al governo di "rafforzare la lotta contro il bracconaggio e di continuare i pattugliamenti congiunti con le [FARDC]", di "aumentare la portata e la frequenza dei pattugliamenti", di “evacuare gli occupanti illegali", e di affrontare "la crescente pressione dell'invasione della proprietà". 

 

Pertanto, l’UNESCO non solo ha legittimato, ma ha anche incoraggiato il sistema e le operazioni che hanno portato a questa violenza estrema contro i Batwa.

 

Anche se il governo francese ha cancellato i suoi piani di finanziamento del parco citando proprio preoccupazioni sui diritti umani, il parco continua a ricevere fondi dalla Germania, dagli Stati Uniti e dall'organizzazione per la conservazione Wildlife Conservation Society (WCS), che ora co-gestisce il parco. MRG ha riferito inoltre che questi finanziatori hanno continuato a fornire assistenza finanziaria e materiale cruciale per il parco, nonostante le molteplici prove di gravi violenze contro i Batwa.

 

Ascolta Julien Basimika, attivista Batwa, denunciare le violenze, le intimidazioni e gli arresti subiti dai Batwa sin da quando sono stati brutalmente sfrattati dal Parco nazionale di Kahuzi-Biega.

 

 

Conclusione

 

Le prove scientifiche dimostrano che i popoli indigeni sono i migliori custodi del mondo naturale. L'80% della biodiversità del pianeta si trova nei loro territori. Molti degli ambienti “naturali” e dei paesaggi più famosi del mondo, compresi siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità, sono in realtà le terre ancestrali di milioni di popoli indigeni che da quelle terre hanno sempre dipeso e che le hanno plasmate, alimentate e protette per millenni. Il concetto di "wilderness", nel senso di una natura selvaggia e incontaminata e inviolata dall'uomo, è un mito coloniale: le terre venivano descritte come vuote per poter essere accaparrate. Un altro mito è quello secondo cui a poter gestire con successo questi ambienti sono solo la scienza occidentale e i suoi "esperti". 

 

Nel corso degli anni, l'UNESCO ha contribuito a rafforzare questi miti pericolosi e le loro evidenti conseguenze: il ruolo dei popoli indigeni nella conservazione viene negato, reso invisibile e celato; e se cercano di accedere alle loro terre ancestrali, questi popoli vengono sfrattati, stuprati, torturati e uccisi dai guardaparco. 

 

In molti casi l'UNESCO ha una chiara responsabilità per le violazioni dei diritti umani, laddove ha incoraggiato i governi a "proteggere" i cosiddetti paesaggi naturali dalle persone che li abitano. Da troppo tempo l'UNESCO è stata informata del prezzo che la popolazione locale sta pagando nei suoi Siti Patrimonio dell’Umanità. Da troppo tempo tace sugli abusi. 

 

Il silenzio dell'Unesco è complicità. È tempo che l'UNESCO decolonizzi sé stessa e prenda una posizione chiara a sostegno dei diritti umani rimuovendo dal suo elenco i siti in cui si verificano violazioni dei diritti umani. È necessario per inviare un messaggio forte a governi e organizzazioni per la conservazione che sostengono e finanziano le atrocità. 

 

C'è un modo semplice di proteggere la biodiversità: riconoscere i diritti dei popoli indigeni. Per questo l'UNESCO dovrebbe promuovere un modello di conservazione basato sui diritti territoriali indigeni. Se non sarà così, a subirne le conseguenze non saranno solo le persone colpite dalla conservazione che sostiene, ma falliranno anche lo scopo e la missione fondamentali dell'UNESCO. 

 

L'UNESCO promuove un modello di conservazione che ferisce, alinea e distrugge i popoli indigeni, i migliori alleati dell’ambiente. È un modello radicato nella violenza coloniale e in pregiudizi razzisti. Mentre i popoli indigeni vengono sfrattati e i loro stili di vita criminalizzati, i turisti sono i benvenuti. 

Survival lotta da 30 anni contro le atrocità commesse nel nome della “conservazione”. Unisciti a noi per decolonizzare la conservazione e promuovere un nuovo approccio che abbia al centro i popoli indigeni e i loro diritti. 

Sono conservazionisti esperti da molto prima che la stessa parola “conservazione” fosse inventata. 
#DecolonizeConservation

 

La complicità dell’UNESCO in abusi dei diritti umani deve finire, aiutaci a fare pressione

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Scarica il rapporto "#DecolonizeUNESCO” (PDF)

 

 

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