Karapiru - gli anni del silenzio
Karapiru: storia di una vita in fuga
Nella sua lingua, il suo nome significa “falco”. Eppure, nonostante l’acutezza della vista che l’epiteto suggerisce, Karapiru non avrebbe mai potuto prevedere la tragedia che ha colpito il suo popolo, gli Awá del Brasile nord orientale. Non avrebbe potuto immaginare che per salvarsi la vita, un giorno sarebbe dovuto fuggire lontano, nel folto della foresta pluviale, con un proiettile di arma da fuoco bruciante nella schiena e la sua famiglia trucidata dai sicari. Né avrebbe potuto sapere che quel drammatico giorno avrebbe anche segnato l’inizio di un decennio di solitudine e silenzio.
La terra ancestrale di Karapiru si trova nello stato del Maranhão, tra le foreste equatoriali dell’Amazzonia occidentale e le savane orientali. Gli Awá, la chiamano Harakwá, “il luogo che conosciamo”.
Oggi, i membri del popolo Awá sono circa 520. Vivono cacciando pecari, tapiri e scimmie; si spostano nella foresta pluviale con archi lunghi due metri e raccolgono i prodotti della foresta: noci di cocco babaçu, bacche di açaì e miele. Alcuni cibi sono apprezzati per le loro proprietà speciali – altri, come gli avvoltoi, i pipistrelli e i bradipi tridattili, sono proibiti. Gli Awá viaggiano anche di notte, illuminando il loro cammino con torce di resina d’albero.
La tribù alleva gli animali rimasti orfani, condivide le sue amache con i coati (simili ai procioni) e spartisce i manghi con i pappagallini verdi. Le donne awá allattano al seno le scimmie cappuccine e quelle urlatrici, e anche piccoli maiali.
L’anno degli Awá si divide in “sole” e “pioggia”; le piogge sono controllate da esseri celesti chiamati maira che sovrintendono ampi spazi di cielo. Quando c’è luna piena, gli uomini awá, con la chioma nera maculata del bianco delle piume dell’avvoltoio reale, entrano in comunione con gli spiriti attraverso la trance indotta da una cantilena. Il rituale sacro dura sino all’alba.
Per secoli hanno vissuto in serena simbiosi con la foresta pluviale. Ma negli ultimi decenni hanno assistito alla distruzione di gran parte della terra natale e all’assassinio del loro popolo per mano dei karaí (i “non-Indiani”). Oggi, sono non solo una delle ultime tribù di cacciatori-raccoglitori rimaste in Brasile, ma anche una delle più minacciate al mondo.
La storia di Karapiru inizia con una scoperta casuale effettuata verso la fine degli anni ‘60 da alcuni geologi americani in ricognizione aerea sulla regione. Per rifornire l’elicottero di carburante, il pilota decise di atterrare su una radura dei monti del Carajás. A quanto si racconta, un geologo identificò alcune rocce grigio-nere sul terreno come minerali ferrosi. In effetti, il suolo conteneva quello che una rivista di geologia descrisse in seguito come “uno spesso strato di jaspilite e cristalli di ematite dura”. In parole povere, i cercatori erano appena atterrati sul più ricco giacimento di ferro del pianeta.
La scoperta innescò lo sviluppo del Gran Carajás, un progetto agro-industriale finanziato da USA, Giappone, Banca Mondiale e l'allora CEE. Furono costruite una diga, fonderie d’alluminio, una linea ferroviaria lunga 900 km e strade asfaltate che distrussero immense fasce di foresta pluviale primaria. Nacquero i primi allevamenti di bestiame e nel suolo della foresta fu scavata una voragine così vasta da poter essere vista dallo spazio: nel corso del tempo sarebbe diventata la miniera a cielo aperto più grande del mondo.
Come condizione per l’erogazione di un prestito da un miliardo di dollari, i finanziatori chiesero al governo brasiliano di garantire la mappatura e la protezione dei territori indigeni. Ciò nonostante, il Progetto Gran Carajás ebbe un impatto devastante sull’ambiente della regione e sui suoi popoli tribali.
Nella foresta c’era una fortuna, e ben presto nell’area si riversarono masse di allevatori, coloni e taglialegna. Ruspe gigantesche squarciavano il suolo per raggiungere minerali, bauxite e manganese. I fiumi furono contaminati, gli alberi antichi furono abbattuti e bruciati. La cenere nera del carbone fagocitò rapidamente il verde intenso del fogliame della foresta: Harakwá era diventata l’immagine dell’inferno: inquinata, sfregiata e fangosa.
Per i prospettori, la tribù degli Awá non era altro che un ostacolo fastidioso allo sfruttamento del tesoro, da abbattere insieme agli alberi. La tribù si frapponeva tra loro e i dollari che quelle rocce avrebbero portato. E così cominciarono a uccidere i suoi membri
Alcuni ricorsero a tecniche fantasiose: molti Awá morirono dopo aver mangiato farina mescolata a veleno di formica, “regalo” di un agricoltore locale. Altri, come Karapiru, furono semplicemente colpiti con armi da fuoco là dove si trovavano: a casa, davanti alle loro famiglie.
Dopo l’attacco, Karapiru credette di essere il solo membro della sua famiglia ad essere sopravvissuto al massacro. I killer avevano ucciso sua moglie, il figlio, la figlia, la madre, fratelli e sorelle. Un altro figlio era stato ferito e catturato. Traumatizzato, fuggì nella foresta con un proiettile conficcato nella schiena.
“Non c’era modo di curare la ferita. Non riuscivo a mettere nessuna medicina sul dorso e soffrivo molto” ha raccontato a Fiona Watson di Survival. “Il piombo bruciava nella mia schiena, e sanguinavo. Non so come abbia fatto a non riempirsi d’insetti. Ma sono riuscito a sfuggire ai Bianchi.”
Karapiru visse in fuga per tutti i dieci anni seguenti. Camminò per quasi 650 km nello stato di Maranhão, attraversando foreste, colline e pianure, le dune di sabbia delle restinga e i larghi fiumi che sfociano nell’Atlantico.
Era terrorizzato, affamato e solo. “Fu molto dura” ha spiegato a Fiona Watson. “Non avevo più una famiglia, e nessuno con cui parlare.” Sopravvisse mangiando miele e piccoli uccelli dell’Amazzonia: pappagallini, colombe e tordi dal petto rosso. Di notte, quando le scimmie urlatrici gridavano dall’alto della volta degli alberi, dormiva sui rami di un grande albero di copaiba, tra orchidee e viti di rattan. E quando il dolore e la solitudine diventavano troppo forti – “a volte non mi piace ricordare tutto quel che mi è accaduto” – si ritrovava a canticchiare o a parlare tra sé e sé.
Poi, un giorno, dieci anni dopo aver assistito all’uccisione della sua famiglia, Karapiru fu avvistato da un contadino alla periferia di una cittadina, ai confini dello stato di Bahia. Stava camminando in una zona di foresta bruciata, portava con sé un machete, qualche freccia, un po’ d’acqua e un pezzo di cinghiale affumicato. Si salutarono.
Karapiru seguì il contadino nel suo villaggio, dove fu accolto da un uomo del posto in cambio di lavoro come taglialegna. Presto si diffuse la notizia che un Indiano solitario, “sconosciuto” e che parlava una lingua che nessuno poteva comprendere, era emerso dalla foresta.
Aveva trascorso dieci anni “fuggendo da tutto” ma non dal suo dolore. “È stato molto triste” disse. Ma come non aveva previsto i suoi lunghi anni di sofferenza, così, il “Falco” non poteva sapere della grande gioia che sarebbe presto arrivata.
Leggi la seconda parte della straordinaria storia di Karapiru.
Se anche tu vuoi aiutarci a combattere le atrocità che hanno devastato la vita di Karapiru, unisciti alla campagna per fermare il genocidio in Brasile. #StopBrazilsGenocide
[Traduzione di Elena Pozzi.]