Tecniche ingegnose dei popoli tribali
Dai cacciatori del Canada ai cacciatori-raccoglitori dell’Africa, nel corso di migliaia di anni i popoli tribali hanno escogitato metodi ingegnosi per sopravvivere senza distruggere l’ambiente.
Durante la stagione secca gli Jarawa utilizzano la linfa della palma del rattan come fonte di liquidi.
Quando raccolgono il miele delle api selvatiche, sputano la linfa delle foglie di una pianta locale sull’alveare, per farle fuggire.
© Salomé/Survival
Nel Mar delle Andamane, gli “zingari del mare” Moken hanno sviluppato la capacità unica di mettere a fuoco sott’acqua, per andare alla ricerca di cibo sul fondale marino. La loro vista è del 50% più potente di quella degli Europei.
© James Morgan/Survival
La storia orale dei Moken è ricca di conoscenze sul mare, sui venti e sulle fasi lunari.
Un mito racconta della la-boon, ovvero “l’onda che mangia la gente”. La leggenda vuole che appena prima dell’arrivo della la-boon, il mare si ritiri.
Nel dicembre 2004, quando il mare si ritirò prima dello tsunami, gli anziani di un villaggio moken della Tailandia riconobbero i funesti presagi e condussero la loro comunità e i turisti in salvo sopra un’altura.
© Cat Vinton/Survival
Nella foresta pluviale del Borneo, gli uomini Penan cacciano i cinghiali con cerbottane fatte di legno duro e frecce intinte nel tajem, un veleno estratto dal lattice di un albero.
Il veleno ostacola il funzionamento del cuore dell’animale.
Le cerbottane amazzoniche possono superare i due metri e mezzo di lunghezza.
© Victor Barro/Survival
Fino agli anni ’60, i Penan vivevano come nomadi. Quando si muovevano nella foresta pluviale comunicavano gli uni con gli altri attraverso un complesso sistema di segnali, fatti di bastoncini e foglie, chiamato oroo.
Con l’ Oroo si trasmettevano messaggi come: La persona che è passata di qui non stava bene, oppure La persona che è passata di qui aveva fame.
© Survival International
A partire dagli anni ’70, le terre ancestrali dei Penan sono state spianate, bruciate e rase al ruolo da disboscamenti su vasta scala, piantagioni di olio di palma, gasdotti e dighe idroelettriche.
© Robin Hanbury-Tenison/Survival
Molti popoli tribali hanno una conoscenza enciclopedica degli animali, delle piante e delle erbe autoctone. Gli Yanomami, ad esempio, utilizzano quotidianamente circa 500 specie di piante differenti.
Gli Yali della Papua Occidentale sono ecologisti eccellenti, e riconoscono almeno 49 diverse varietà di patate dolci e 13 di banane.
© William Milliken/Survival
Un gruppo di donne Yanomami macina la radice della manioca.
Coltivata dagli Indiani sudamericani, la radice di manioca è divenuta oggi un alimento d’importanza mondiale. È l’elemento principale della dieta di circa un miliardo di persone in oltre 100 paesi diversi, cui fornisce circa un terzo del fabbisogno calorico giornaliero. Nella sola Africa, lo utilizza quasi l’80% della popolazione.
In generale esistono due varietà di manioca: dolce e amara, entrambe velenose se non preparate adeguatamente. La maggior parte degli Indiani ne coltiva decine di varietà differenti: la sola tribù dei Tucano ne utilizza più di cinquanta.
© Fiona Watson/Survival
Nel corso del tempo, i popoli indigeni hanno sviluppato sistemi olistici sofisticati. La loro farmacopea è vitale sia per l’alimentazione sia per la salute.
La corteccia della pianta del copale cura le infezioni all’occhio; il succo di una vite tropicale, conosciuta anche come “artiglio di gatto”, ferma la diarrea; e inalando un pesto di erbe aromatiche si alleviano raffreddore e nausea.
Molti dei farmaci utilizzati oggi dalla medicina occidentale ci vengono dai popoli indigeni, e hanno salvato la vita di milioni di persone. Ad esempio il curaro, il veleno che i cacciatori yanomami applicano sulle punte delle frecce per immobilizzare le prede, è stato trasformato in rilassante muscolare dalla medicina occidentale.
© Fiona Watson/Survival
La maggior parte dei popoli tribali ha un’acuta sensibilità per il comportamento animale. Gli uomini Pigmei sono imitatori così esperti che possono riprodurre il lamento di un’antilope ferita per attirarne un’altra fuori dai cespugli.
Allo stesso modo, i cacciatori della Siberia sono capaci di imitare il pianto di un cucciolo di renna in cerca della madre, o il verso di un maschio in calore.
© Kate Eshelby/Survival
Durante la stagione secca, quando il livello dei fiumi è basso, i Wichì dell’Argentina vivono dei pesci che catturano con una rete tesa tra due pali. Immersi nell’acqua fangosa, percepiscono la presenza del pesce scrutando i movimenti dell’acqua sulla superficie.
© Survival International
Come i Wichì, anche gli Enawene Nawe sono pescatori esperti.
Nella stagione secca prendono il pesce usando un veleno chiamato timbó, prodotto dal succo di una vite legnosa. Battono fasci di vite sull’acqua, per far uscire il veleno che asfissia i pesci fino a farli galleggiare in superficie.
Pescano anche sbarrando il corso dei fiumi con un sapiente intreccio di tronchi, tra i quali gli Indiani infilano decine di nasse di forma conica. Per legare la struttura usano viti e cortecce.
© Fiona Watson/Survival
Le donne Awá si prendono cura di diverse specie di cuccioli di scimmia rimasti orfani, tra cui le scimmie urlatrici e quelle cappuccine, che allattano al seno.
© Domenico Pugliese/Survival
Per illuminare le case di notte, le donne Awá bruciano una resina che estraggono da un albero rosso brasiliano (il maçaranduba).
Oggi le loro foreste vengono disboscate illegalmente e gli Awá sono diventati la tribù più minacciata del mondo. Vivono sotto il pericolo costante di estinzione a causa dei violenti attacchi degli invasori illegali e del furto delle loro terre.
© Lewis Davies/Survival
La carne di renna è l’alimento più importante della dieta nenet.
Viene mangiata cruda, congelata oppure bollita, insieme al sangue di una renna appena macellata, che è ricco di vitamine.
La percentuale di grasso nel latte di renna è del 22%: sei volte di più che in quello di mucca.
Una donna Boscimane del Botswana assapora la polpa di un melone.
Tradizionalmente, i Boscimani si procurano l’acqua attingendola dalle “pan” – depressioni della sabbia che si riempiono di pioggia – o l’assumono attraverso radici e meloni tsama. Sono tutte tecniche apprese nel corso di migliaia di anni di sopravvivenza nel deserto durante le stagioni secche, quando i pozzi d’acqua del Kalahari si riducono in polvere.
Impari quello che la Terra ti suggerisce ha detto Roy Sesana, Boscimane Gana.
© Dominick Tyler
I Matsés sono abili cacciatori, esperti nell’uso di archi e frecce: le aste delle frecce sono di bambù e vengono decorate con nastri di cotone e fili d’erba dorata.
Tra le loro prede ci sono le scimmie ragno, i pecari dal labbro bianco, i tapiri, le scimmie dal pelo lungo e gli armadilli. Nella stagione secca raccolgono anche le uova delle tartarughe di fiume.
© James Vybiral/Survival
Spesso, prima delle battute di caccia, gli uomini Matsés soffiano il tabacco l’uno nel naso dell’altro per aumentare l’energia, o assumono il veleno di rana: produce una sensazione di lucidità e forza che può durare per diversi giorni.
Il fluido viene raccolto sfregando la pelle della rana con un bastoncino. La secrezione viene poi inserita in piccoli fori praticati sulla pelle del destinatario.
© James Vybiral/Survival
Gli Hadza della Tanzania hanno sviluppato una relazione di aiuto reciproco con gli uccelli-guida, che li conducono agli alveari delle api selvatiche.
Gli uccelli-guida chiamano i cacciatori, i quali fischiano in risposta. L’animale si muove di albero in albero, fermandosi ad aspettare i cacciatori, e alla fine li conduce all’alveare, che spesso si trova in alto, tra i grossi rami di un baobab.
© Joanna Eede/Survival
I cacciatori Hadza si arrampicano sull’albero con in mano dell’erba fumante, per far uscire tutte le api dall’alveare .
L’uccello-guida viene ricompensato con gli avanzi del favo.
Puoi camminare fino a Ndabuado, ma l’uccello-guida ti trova e ti riporta indietro all’alveare che hai superato ha detto Johana, un cacciatore Hadza.
© Joanna Eede / Survival
Senza traccia.
Probabilmente i popoli indigeni sanno meglio di chiunque altro che il delicato equilibrio tra uomo e natura è stato mantenuto per millenni solo grazie al rispetto dei suoi limiti. Non è un caso che molte delle aree più ricche in biodiversità del mondo siano rimaste tali proprio grazie alla cura dei loro custodi indigeni.
A parte le foglie di liana fuori posto o le impronte sui tronchi degli alberi, gli Awá lasciano ben pochi segni del loro passaggio nella foresta. Il veleno che gli Yanomami usano per pescare i pesci si scioglie rapidamente nell’acqua senza danni né inquinamento. Gli Innu conservano con cura le ossa delle gambe del caribù e attaccano le corna in alto sugli alberi in segno di rispetto per l’animale.
La responsabilità e la reciprocità sono requisiti essenziali per la sopravvivenza. Per i popoli indigeni, prendere più del necessario o deturpare la terra non è solo controproducente, ma anche irresponsabile verso i figli non ancora nati. Cacciamo selettivamente dicono i Penan. Solo quel che basta per soddisfare i nostri bisogni.
Tuttavia senza i diritti territoriali, che Survival difende da 44 anni, i popoli indigeni non possono sopravvivere.
Il lavoro di Survival permette ai popoli tribali di difendere le loro vite, proteggere le loro terre e determinare autonomamente il proprio futuro. Ma cerca anche di impedire che il mondo perda le loro straordinarie conoscenze e abilità, oggi più importanti che mai per l’intera umanità.
© TH/Survival
Millenni di immersione ininterrotta nella natura hanno permesso a molti popoli tribali di cogliere anche i segnali più impercettibili del mondo naturale.
Con acute osservazioni, le tribù hanno imparato a cacciare gli animali e a raccogliere radici e bacche commestibili, a percepire i cambiamenti climatici, a prevedere i movimenti delle lastre di ghiaccio, il ritorno delle oche migratrici e i cicli di fioritura degli alberi da frutto.
Alle sfide imposte da habitat diversi e spesso ostili, hanno risposto con sofisticate tecniche di caccia, inseguimento, allevamento e navigazione.
Lo sviluppo di queste conoscenze e abilità testimonia il potenziale creativo degli esseri umani e la loro straordinaria capacità di adattamento; ma ha permesso anche ai popoli tribali che possono continuare a vivere sulle loro terre utilizzando tecniche perfezionate nel corso delle generazioni, di essere generalmente sani, auto-sufficienti e felici.
Io sono l’ambiente ha detto Davi Kopenawa Yanomami. Sono nato nella foresta. La conosco bene.
© Claudia Andujar/Survival
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